Due parole con Silvio Pizzica
- Silvio Mancinelli
- 3 giorni fa
- Tempo di lettura: 5 min

Cominciamo dal presente: gestisci il Garbage Live Club, ultimo baluardo del rock in Valle Peligna. Ci racconti qualcosa di questo posto?
Il Garbage Live Club è stata la naturale evoluzione della mia passione per la musica, che nasce da giovanissimo. Da adolescente ero presente ai concerti dei più grandi al Naima, al Sigfrido, al Barakka, a Bistecca, per non parlare delle trasferte folli in treno fuori da questa valle. Ho iniziato a suonare il basso e col gruppo ci siamo divertiti un sacco, ma presto ho capito che non era quello il mio ruolo nel mondo della musica. Ho iniziato a studiarne la storia e ad ascoltare senza mai pormi paletti di generi o mode. Ho ascoltato una quantità incredibile di dischi, di ogni stile ed epoca. Poi la mia passione ha incontrato quella per la scrittura e Rockambula, una webzine indipendente. Ho iniziato a scrivere recensioni, fare interviste e articoli, e presto ne sono diventato caporedattore. Ho collaborato con testate come Ondarock e tante altre. Da lì è nato Streetambula, quando noi della zine abbiamo incontrato i ragazzi di Pratola di Nuove Frontiere. È stato sia un progetto di promozione della musica live originale e indipendente, sia un festival che ha portato grandi nomi in valle.Dalla voglia di darsi da fare per creare luoghi adatti a questo tipo di musica è nata l’idea del Garbage. Qui c’è uno spazio separato dal bar dove si alternano grandi nomi (ultimo, Pellegrini degli Zen Circus e dei Criminal Jokers) ed emergenti. Niente tribute band, ma semplicemente perché non sarebbe il luogo adatto e perché di spazi per chi fa pezzi propri ce ne sono davvero pochi.Pensaci: tuo nipote domani mette su una band industrial punk. Chi lo farebbe suonare in Abruzzo? Ovviamente il Garbage Live Club.
Hai portato tanta musica in Valle Peligna. Chi ti ha sorpreso di più?
Sarebbe bello fare questa domanda al nostro pubblico. Ogni tanto tiriamo fuori questo discorso ed è figo vedere come la risposta non sia così scontata.
Facile dire Thegiornalisti prima di diventare famosi, facile dire i già noti come Bologna Violenta o quelli finiti alle finali di X Factor, tipo Bowland, Naip o Animaux Formidable.
Ma c’è anche un ragazzo che qui ha suonato hardcore e ora fa dischi di platino.
Se proprio vuoi un nome: i Nation of Language da Brooklyn; da sconosciuti a 30 euro a biglietto in un anno.
Da gestore di locale, qual è il tuo pensiero da imprenditore ma anche da conoscitore? È un’attività redditizia? In Italia come va?
Se guardi esclusivamente al live, no, non è una cosa redditizia. Diciamo che in quasi tutte le serate ci si rimette. O meglio, non ci si rimette anche grazie ai diciottenni che se ne fregano del live e stanno al bancone a consumare e basta.
Per questo è meglio evitare di dividerci in fazioni in lotta. Anche perché poi di quelli che dicono di essere appassionati veri non se ne vedono a centinaia.
Riusciamo a recuperare anche con l’attività quotidiana del bar, che ci permette di portare avanti ciò che oggi resiste soprattutto grazie alla passione personale e dei ragazzi sempre presenti. È per questo che da noi può capitare di ascoltare un live post-punk mentre sopra si balla con Kendrick Lamar. Riusciamo a far coesistere mondi e generazioni diverse. Da quello che sento dai colleghi, in Italia la situazione è abbastanza drammatica, soprattutto se si parla di proposte poco note. Ma fa figo andare ai concertoni-evento da 100 euro dove la musica è il contorno. Quelli vanno alla grande.
Sei stato una penna storica di Rockambula e scrivi ancora: la musica di oggi come è cambiata in questi anni? Ai giovani di oggi piacerebbe quello che si ascoltava 30 anni fa?
Ho chiuso con Rockambula da pochi mesi. Riesco ad ascoltare – e non scherzo – una media di 12 ore di musica al giorno. Spesso nuova.
Non ho più voglia di perdere troppo tempo dietro ai paletti di un sito web, a formattare, caricare link e altre cose tecniche. Voglio solo consigliare musica a chi non ha la fortuna di poterne ascoltare tanta. E così è nata su Instagram la nostra Guida Perversa a Deliri e Distorsioni. Seguiteci. Ho visto la musica cambiare, mischiarsi, ricomporsi, tornare, rileggere, azzardare. Come sia cambiata non è una risposta che si può dare così. Di che musica parliamo? Di quella commerciale, di quella delle classifiche, di quella italiana o inglese? Di quella che si suona qui da noi o quella che propongono nei pub?
Il discorso è troppo ampio e complesso per una risposta veloce. La musica è cambiata perché cambia chi la fa, chi la cerca; cambiano i mezzi per crearla e i mezzi per ascoltarla; cambiano le esigenze di chi la produce e di chi la fruisce.
La musica non è solo arte; a volte è anche solo intrattenimento. E tanto gioca il ruolo di chi la musica la produce e promuove. E in Italia siamo nella merda.
Ma non starà mai ferma ad aspettare gli anziani lamentosi che raccontano quanto fosse più figa quella di quando loro erano adolescenti.
Fai questo test: chiedi a chiunque quale sia l’epoca d’oro della musica; risponderanno quasi sempre quella in cui avevano sedici anni, qualsiasi sia la loro età.
Ai giovani di oggi dovrebbe piacere quello che si suonava nei Novanta? Potrebbe; non è impossibile.
Ovviamente però loro cercano qualcosa che parli del loro tempo, con il loro linguaggio. Apprezzare qualcosa di così tanto più vecchio necessita di uno sforzo in più e una sensibilità che probabilmente in alcuni arriverà più tardi, in altri mai.
In fondo, potremmo ribaltare la situazione: quanti quarantenni conoscono album usciti nel 2025? E quanti nostri coetanei ascoltavano cose alternative?
Io avevo sedici anni nel 1996 e no, non ascoltavo tantissima musica degli anni ’60. E intorno a me era pieno di fan di Eros Ramazzotti.
Ultima domanda: secondo te qual è il futuro della musica live?
Se parliamo di futuro recente non è molto complesso rispondere. Basta andare ai concerti nei locali come il nostro, ma anche in posti poco più grandi, tipo a Roma, Lione, Madrid, Valencia, per capire che l’età media di questi eventi è ai massimi storici: oltre i 40 anni.
Se i nostri coetanei stanno a casa, sotto il palco ci sarà il vuoto.
E più si alza l’età media del pubblico, più la proposta si appiattisce ai gusti dei “vecchi”, creando un circolo vizioso pericoloso fatto di tribute band ovunque.
Perché io gestore dovrei proporre qualcosa per i ventenni, se poi non vengono ai live, col rischio che non vengano neanche i più grandi?
Le soluzioni ci sarebbero, ma sono molteplici e non possono arrivare tutte dagli stessi soggetti. Ci sarebbe bisogno di cooperazione, ma non credo sia una cosa che interessi molto: c’è molto egoismo e arrivismo in questo mondo.
C’è poi da dire che la musica dei giovanissimi italiani è meno legata al concetto di live. Lamentarsi e criticare non serve a molto. Se si deve fare qualcosa per non farla sparire, c’è bisogno di idee e collaborazione. Qualcosa di bello lo sta facendo il mondo hardcore punk col rap, ad esempio.
Sul lungo termine, invece, non saprei dirlo. Il mondo va troppo veloce e ho paura a immaginare il futuro. Potrebbe non essere quello che vorremmo.


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